Cari "bloghisti"di archforumbelluno; vorrei lanciare una discussione su due temi di attualità. Riguardano l'acqua e l'aria (mica roba da poco). Espongo la questione. Dopo l'approvazione del "Decreto Ronchi" del novembre scorso è di grande attualità il dibattito nel Paese sulla "privatizzazione" dell'acqua potabile. Tema del contendere è il mantenimento o meno in mano interamente pubblica degli impianti e della gestione del servizio idrico integrato, vale a dire se quest'ultimo sia ancora un tipo di servizio - quantomeno per garantire ai cittadini il quantitativo minimo vitale - privo di quella "rilevanza economica" che può caratterizzare la disponibilità di altre risorse naturali. Per inciso, ben sette Regioni hanno impugnato suddetto Decreto per incostituzionalità. In Europa la discussione sulla "privatizzazione" dell'acqua è altrettanto accesa. Eaudeparis, la grande municipalizzata per l'acqua della capitale francese, da un anno non ha più confermato i vecchi contratti con i privati.

E' giusto, ci si interroga, che l'acqua-bene comune passi per legge in gestione al privato per la sua distribuzione e manutenzione degli impianti? Non sarebbe preferibile ritornare alla gestione pubblica in modo tale da riuscire a contenere di più, con qualche sacrificio collettivo, la tariffazione (soprattutto per l'uso domestico) e a mantenere la consapevolezza sociale che il vitale elemento naturale, del quale si deve controllare la qualità e il razionale utilizzo per evitarne lo spreco, non possa essere rapportabile ad una qualsiasi merce da scambiare nel mercato?

Chi abbia seguito la puntata di "Report" di domenica 7 febbraio u.s. avrà appreso di quanto sia rischioso, in nome di una supposta modernità liberista nonchè accettazione senza riserve dell'apertura alla concorrenza anche per transazioni di beni da sempre legati all'idea di proprietà collettiva, la cessione in uso al privato del prezioso elemento senza il quale non potremmo sostenere la nostra presenza sulla terra.

Se tutto potesse essere ricondotto a merce da vendere ed acquistare e, per legge di mercato, tutto fosse assoggettabile al meccanismo del prezzo che si assesta in base alla regola della domanda/offerta, potremmo ipoteticamente supporre che, una volta cadute le labili barriere di garanzia (circostanza tutt'altro che peregrina) che la rappresentanza della collettività stabilisce in merito ai prelievi e alla modulazione dei relativi costi con livelli tariffari massimi al consumo, anche l'acqua dovrebbe seguire tale sorte. Nel senso che talmente grande sarebbe la domanda da suggerire al privato il "desiderio" di far salire alle stelle tale prezzo al consumo. Le giustificazioni che il privato-imprenditore potrebbe addurre, stiamo certi, sarebbero prima o poi ritenute "...meritevoli di considerazione.." da parte dei Comitati Interministeriali sul controllo dei prezzi al consumo. La politica, in questi "passaggi", ha già dato dimostrazione di saperne uscire con misurato ma efficace accoglimento delle istanze lobbistiche dei vari produttori di gas, benzine, energie elettriche, farmaci ecc.... Ma non vorrei metterla troppo in polemica, né passare per antiliberale. Quel che mi interessa mettere in rilievo, però, è il fatto che, comunque la si pensi in merito a quali siano le migliori regole economiche che lo stato può assumere, un bene primario qual'è l'acqua dovrà, immagino, essere ben valutato prima di essere immesso sul libero mercato principalmente in rapporto alle "compatibilità ambientali" di tale operazione, dove il soggetto primo da salvaguardare con le sue esigenze nel suo ambiente sia l'uomo che ci vive.

Lo stesso ragionamento lo si potrebbe fare in merito all'aria-bene comune. Supponiamo che si potesse prender l'aria fresca e pulita di montagna e imbottigliarla in confezioni spry per venderla dove c'è dell'inquinamento. L'aggressivo marketing saprebbe fare questi miracoli...: un buon testimonial (propenderei per la Marcuzzi..) che in tv se la spruzzi in bocca nei momenti di stress come in "..non ci vedo più dalla fame..", qualche passaggio sui format più visti ed il gioco è fatto. Business sicuro. Poco male si dirà; sembrerebbe quasi una trovata alla Totò o come quella della vendita della fontana di Trevi. Al massimo accadrebbe che le comunità locali che si sentono defraudate del "marchio" di origine di quell'aria tonificante venduta in bombolette (naturalmente eco-compatibili) potrebbero vantare il riconoscimento di una percentuale sugli affari. A quel punto si spargerebbe la voce tra gli amministratori, a corto di risorse di bilancio, e in molti farebbero il tifo per l'iniziativa. Nuove entrate per poter sforare i vincoli di stabilità.

Ma se avvenisse il contrario che succederebbe? Poniamo che qualche scienziato innovatore scopra come fare per prelevare aria inquinata in zone sature di co2 e inventasse come stoccarla in altre zone più salubri, dove fosse eventualmente possibile anche filtrarla e depurarla con calma, pagando un "tot" alla comunità locale che si sobbarchi l'onere di "adottarla".

Anche in questo caso sicuramente qualche amministratore annuserebbe vantaggi in termini di nuove entrate nelle casse pubbliche, metterebbe in atto un coinvolgimento persuasivo della popolazione e troverebbe il modo di risolvere la "compatibilità ambientale" dell'iniziativa.

Ma questa non è più una trovata alla Totò. Leggo, infatti, sul Corriere delle Alpi del 12.febbraio u.s. un articolo dal titolo "Boschi: il comune vende l'aria". Scorrendo tra le righe balza all'occhio un virgolettato attribuito ad un dirigente del servizio pianificazione e ricerca forestale della regione: ".La vendita di co2 rientra in un mercato volontario e locale....le imprese, per motivi di marketing, possono essere interessate a vendere prodotti "low carbon", vale a dire che per produrli è stata consumata poca energia. Ma se le emissioni di co2 sono state in eccesso possono compensare il gap tramite l'acquisto di una quantità di bosco che corrisponde ai mc. di co2 prodotti in più....il proprietario del bosco deve mantenere quella quantità e quindi di quelli alberi per un tempo necessario a garantire lo smaltimento del co2 in eccesso..". Segue il commento dell'articolista "..in questo modo un'azienda potrà sforare tranquillamente i parametri ambientali, senza troppi mal di testa..". Ossia: basta pagare. I proprietari dei boschi, fossero anche amministrazioni locali, potrebbero metterli sul mercato e passare all'incasso. Tutto alla luce del sole.

Basta, quindi, lamentarsi del fatto che il bosco si espande a dismisura sul territorio, coprendo i prati, le vecchie sistemazioni agrarie, le rive dei corsi d'acqua, arrivando a lambire i paesi fino alle prime case e modificando progressivamente il PAESAGGIO (fenomeno particolarmente avvertito nelle nostre zone). Lamentazioni stantie: ora finalmente c'è la giustificazione economica per tifare in favore della sua rapida dilatazione vegetativa per la produzione di aria "certificata" da mettere in vendita.

Giovanni "John" Pante

 


Commento da arch. Arnelio Bortoluzzi su 26 Febbraio 2010 a 10:33

Lo spunto mi viene offerto da Gianfranco Agostinetto quando, nel suo commento, riferisce dell’uso razionato dell’acqua citando a testimoni gli over 50. Ricordo che nel paese, quando in casa non arrivava l’acquedotto, l’acqua veniva presa alla fontana. Mentre la mamma accudiva alla casa ed il papà era al lavoro, toccava ai più grandicelli andarla a prendere. Sulle esili spallucce veniva posizionato il “bigol o zempedon”. In italiano si chiama bicollo ed è quell’attrezzo a forma di asta ricurva alle cui estremità venivano appesi i due pesanti secchi in lamiera zincata da riempire. La raccomandazione della mamma era sempre la stessa: “...mi raccomando non riempirli fino all’orlo!”. Non era per alleviare il peso insistente sui poveri scricchiolanti ossicini, ma per non perdere per strada l’acqua a causa delle oscillazioni dell’incerto e caracollante incedere. Il secchio, giunto in cucina, veniva appeso ad un chiodo dietro la “coltrina”, una tenda in tela cerata. L’acqua, in caso di sete, veniva presa con un mestolo in allumino dalla mamma, il bambino beveva e quella che rimaneva veniva rimessa nel secchio. Non erano gesti di grande intensità igienica, ma racchiudevano un riconoscimento al “valore-vita” dell’acqua oggi dimenticato e riscoperto solo a fronte della terrorizzante ipotesi dell’ aumento del costo. L’acqua in casa è stata una conquista ed il valore va trasmesso alle future generazioni, prima di innescare crociate, giuste o sbagliate che siano, sulla gestione pubblica o privata.
E poi riflettendo bene, non sono forse gli Amministratori pubblici eletti dalla maggioranza degli assetati che vogliono privatizzarla? Vuoi vedere che anche stavolta gli Italiani...

Commento da lorenzo mar su 24 Febbraio 2010 a 11:21
Caro John, ho letto con attenzione il tuo commento, ed in linea generale e teorica concordo con il tuo pensiero, ma sono molto pessimista sul futuro in quanto qualsiasi sia la soluzione al problema ha sicuramente delle enormi controindicazioni.
Il privato che assume l'onere del servizio pubblico di distribuzione dell'acqua sicuramente alla fine fa i suoi interessi anche a scapito della qualità e della economicità del servizio, d'altra parte come si è comportato l'ente pubblico in questi anni? reti vecchie, scarsi investimenti (il denaro serve per gli stipendi dei dirigenti), sprechi, scarsa qualità del servizio, posti parcheggio per "trombati" e molto altro , in conclusione un bel ginepraio da cui uscire è molto difficile.
Io credo che alla fine sia un problema di regole certe e stringenti a cui tutti debbano attenersi. Se il quadro fosse questo e tutti si comportassero correttamente non ci sarebbe più nessun problema per nessuna delle soluzioni che possano essere trovate per aumentare la qualità del servizio.

Invece per quanto riguarda il problema del bosco che avanza, ricordo sommessamente che il tema è molto presente nel bellunese e molto meno nelle regioni confinanti. Mi si dirà che c'è un problema di risorse ineguali e concordo, ma dico, facendo un discorso più generale, perchè i bellunesi nel corso degli ultimi 40 -50 anni si sono completamente disinteressati della qualità de paesaggio, della qualità della pianificazione urbanistica (basta vedere come è ridotta urbanisticamente la bellissima conca del centro Cadore e l'impatto che l'edificazione completamente informe e disordinata ha avuto sul territorio), della qualità del turismo e soprattutto del presidio con l'attività agricola e di allevamento del territorio, l'unica cosa che importava era avere un posto nell'industria dell'occhiale con uno stipendio certo e tutto il resto chi se ne frega!. Il risultato finale è che con l'odierna crisi non esiste alcuna alternativa valida per l'economia del territorio e su questo i bellunesi hanno una grande responsabilità.
Io credo che anche se avessero avuto tutti le risorse economiche del Sud Tirolo difficilmente il risultato sarebbe stato simile perchè, per me, il problema è soprattutto culturale e la gente dove cambiare mentalità.
Banalmente credo che Il bosco si tiene lontano dalle case solo con lo sfalcio dell'erba, diversamente la natura dei luoghi riprende tutti i suoi spazi e il bosco arriva fino a Venezia, stesso discorso vale per i pascoli d'alta quota dove una volta vi era una importante attività di allevamento del bestiame.
Non dico di riproporre modelli culturali forse passati, ma comunque bisogna trovare delle alternative che possano riproporre un analogo sistema di cura del paesaggio.
Scusate lo sfogo ma qualche volta le cose anche se scomode vanno dette per quello che sono e spero che questo scritto possa suscitare qualche dibattito
Un saluto a tutti Lorenzo Mar

Commento da Gianfranco Agostinetto su 24 Febbraio 2010 a 10:48
LA FOGLIA DI FICO
Di fianco al torrente Padola corre il Risena. Le acque de Risena sono invisibili, da anni prelevate a monte dalla centrale dell'Enel.
Scendiamo più a valle, il torrente Digon. Sul torrente insistono due centraline (l'acqua, povera acqua), subito a valle delle centraline il torrente è quasi in secca.
I comuni impazziscono per le centraline, centomila, duecentomila, mezzo milione di euro al mese, all'anno... e i torrenti sono in secca. Energia riciclabile tout-court.
Ma ci poniamo il problema della privatizzazione degli acquedotti, fenomeno sociale.
Concordo con la privatizzazione e spiego il perché!
Parlo a molti che hanno +/- superato i 50. Tutti ricorderanno il diverso approccio all'acqua negli anni della nostra adolescenza. L'uso era razionale e finalizzato allo stretto necessario.
Oggi l'acqua scorre "a fiumi" nelle case, l'uso che ne facciamo, proprio perché è un bene dai costi contenuti, è irrazionale e, molto spesso, irresponsabile (penso ai "tappeti inglesi").
Si dice che gli acquedotti sono dei colabrodi, che la colpa è delle tubazioni in acciaio forate dalla conduttività elettrica, tutto sarebbe da rifare. Chi paga?
I servizi, dobbiamo assolutamente capirlo, assorbono una quota fondamentale dei nostri redditi, altrimenti siamo come quelli che, nel campo della previdenza, vogliono pensioni vicine ai loro ultimi redditi versando meno di 1/3 del dovuto. Così è con l'acqua, la paghiamo probabilmente meno di un terzo di quello che in realtà costa, indipendentemente dalla ricchezza della materia prima, cosa che caratterizza i nostri territori.
Ben venga la privatizzazione dell'acqua, se ciò significa che ogni litro prelevato alla montagna sarà pagato per migliorare la nostra qualità della vita che, voglio ricordare a tutti, non è certo delle migliori (provate a nascere a Danta, provate a seguire un percorso di studio, provate a frequentare una scuola superiore, poi mi dite cosa ne pensate).
Sull'aria...ibidem.
Sarei felice che Pian dei Buoi o la Val Visdende, a co2 zero diventassero poli di attrazione nazionali ma, credetemi, Misurina docet, è pura fantasia.
Pertanto trovo perfettamente coerente la risposta di Arnelio e, se devo lamentare una carenza, è l'assoluta nostra assenza (parlo come categoria professionale) dalle problematiche lanciate sul tavolo da "John" Pante.
Sempre con affetto, Gianfranco

Commento da arch. Arnelio Bortoluzzi su 23 Febbraio 2010 a 19:38
Caro John come sempre sei spiritoso ed efficace nel proporre temi di grande attualità. Difficile non condividere quello che affermi, tuttavia va capito perché nell'italico paese si giunge alla proposta di privatizzare l'acqua. Che ci sia interesse è pacifico, ma che il "pubblico" , sempre noi, non riesca più a trasformare le tasse in servizio è altrettanto vero. Così gli acquedotti sono vecchi, fatiscenti con dispersioni d'acqua che, se non arginate,ci faranno rimanere davvero senza il prezioso liquido. Dai palazzi ci fanno sapere che mancano le risorse economiche, insomma siamo con l'acqua...alla gola. Ci sono alternative alla privatizzazione in un paese dove i ricercatori, i nostri cervelli, si comprano la carta per le fotocopie e negli uffici pubblici non ci sono i soldi per comprare la cancelleria? La risposta alla politica, non quella del consenso, ma quella che ritiene che questo Paese possa avere ancora un futuro.
Io e mia moglie abbiamo qualche bosco, non ci crederai ma ho comprato una motosega alla faccia della CO2, dell'aria certificata e dei paventati spot della Marcuzzi. Come si dice da noi: "poareti ma neti" (poveri ma puliti).